lunedì 8 agosto 2011

8 9 agosto COCA POP di Pasquale Pozzessere presente lunedi all'Arenare storie di dipendenza da cocaina relative a tre differenti generazioni. Un'anziana signora scopre che l'uomo con cui è sposata da molti anni fa uso di cocaina e quando questi se ne accorge inizia ad aggredirla e umiliarla violentemente. Una coppia benestante scopre che il figlio ventenne usa regolarmente cocaina per concentrarsi nello studio e la loro incertezza ad affrontare il problema fa degenerare la situazione. Una musicista cocainomane appena rientrata da Berlino scopre di essere incinta e comincia ad avere delle visioni. Passata dall'essere la droga d'élite dei ricchi manager e dei rampanti carrieristi degli anni Ottanta a diventare la sostanza stupefacente più utilizzata fra tutte le fasce di età e di reddito, la cocaina è oggi una droga pop, facile da reperire e da consumare. Per spiegare l'evoluzione più ampia del fenomeno, Pasquale Pozzessere pone in esergo al suo film dedicato alla polvere bianca le parole di interesse e curiosità di Sigmund Freud sugli effetti delle foglie di coca sul sistema nervoso, per poi chiudere con un resoconto dei dati sui consumi attuali e sul fatturato del mercato nero (soprattutto camorrista). Fra queste due citazioni, fra loro distanti più di 125 anni, Pozzessere elabora tre racconti di dipendenza da cocaina letta all'interno delle mura domestiche, e quindi osservata negli effetti non solo sul tossicodipendente ma anche sul suo ambiente familiare (reale o presunto, come nel caso dell'ultimo episodio). Il regista pugliese raduna molti attori famosi (Anita Caprioli, Stefano Dionisi, Lisa Gastoni, Arnaldo Ninchi) e li riprende cercando uno stile autentico, fatto di piani ravvicinati, luci naturali e macchina a mano. Fra loro è soprattutto la Caprioli a dare tutta se stessa nel doppio ruolo di madre presente e futura, genitore remissivo e preoccupato e musicista sbandata e visionaria. Ma, al di là del duplice ruolo dell'attrice e di una continuità scenografica (le tre storie si svolgono all'interno dello stesso appartamento, riconoscibile soprattutto dalla presenza di un vistoso frigorifero rosso), una precisa coerenza che giustifichi tale tripartizione parrebbe difficile da trovare. Si avverte come l'impressione di una struttura sfuggente, che procede per intersezioni anziché per insiemi: se i primi due segmenti sono da leggere come un incoraggiamento ad affrontare il problema nei rapporti sociali e familiari, l'ultimo è più uno sguardo introspettivo all'interno di una solitudine. È vero che tutte e tre le storie ruotano attorno al consumo di cocaina a varie età e alle tragiche conseguenze di una tossicodipendenza, ma non vedono scorrere fra loro un filo rosso abbastanza robusto da poter ritrovare un quadro d'insieme e leggere l'ampiezza e la complessità del problema. Che venga dai membri familiari o dalle proiezioni della coscienza, è chiaro che per Pozzessere la cocaina è un problema sociale prima che personale, di rapporti prima che di solitudini. Per questo il suo lavoro sarebbe forse risultato più efficace se avesse puntato più sulle cause che sulle conseguenze, più sulla forza e la credibilità dei legami che sulla tragicità degli eventi.

re storie di dipendenza da cocaina relative a tre differenti generazioni. Un'anziana signora scopre che l'uomo con cui è sposata da molti anni fa uso di cocaina e quando questi se ne accorge inizia ad aggredirla e umiliarla violentemente. Una coppia benestante scopre che il figlio ventenne usa regolarmente cocaina per concentrarsi nello studio e la loro incertezza ad affrontare il problema fa degenerare la situazione. Una musicista cocainomane appena rientrata da Berlino scopre di essere incinta e comincia ad avere delle visioni. Passata dall'essere la droga d'élite dei ricchi manager e dei rampanti carrieristi degli anni Ottanta a diventare la sostanza stupefacente più utilizzata fra tutte le fasce di età e di reddito, la cocaina è oggi una droga pop, facile da reperire e da consumare. Per spiegare l'evoluzione più ampia del fenomeno, Pasquale Pozzessere pone in esergo al suo film dedicato alla polvere bianca le parole di interesse e curiosità di Sigmund Freud sugli effetti delle foglie di coca sul sistema nervoso, per poi chiudere con un resoconto dei dati sui consumi attuali e sul fatturato del mercato nero (soprattutto camorrista). Fra queste due citazioni, fra loro distanti più di 125 anni, Pozzessere elabora tre racconti di dipendenza da cocaina letta all'interno delle mura domestiche, e quindi osservata negli effetti non solo sul tossicodipendente ma anche sul suo ambiente familiare (reale o presunto, come nel caso dell'ultimo episodio). Il regista pugliese raduna molti attori famosi (Anita Caprioli, Stefano Dionisi, Lisa Gastoni, Arnaldo Ninchi) e li riprende cercando uno stile autentico, fatto di piani ravvicinati, luci naturali e macchina a mano. Fra loro è soprattutto la Caprioli a dare tutta se stessa nel doppio ruolo di madre presente e futura, genitore remissivo e preoccupato e musicista sbandata e visionaria. Ma, al di là del duplice ruolo dell'attrice e di una continuità scenografica (le tre storie si svolgono all'interno dello stesso appartamento, riconoscibile soprattutto dalla presenza di un vistoso frigorifero rosso), una precisa coerenza che giustifichi tale tripartizione parrebbe difficile da trovare. Si avverte come l'impressione di una struttura sfuggente, che procede per intersezioni anziché per insiemi: se i primi due segmenti sono da leggere come un incoraggiamento ad affrontare il problema nei rapporti sociali e familiari, l'ultimo è più uno sguardo introspettivo all'interno di una solitudine. È vero che tutte e tre le storie ruotano attorno al consumo di cocaina a varie età e alle tragiche conseguenze di una tossicodipendenza, ma non vedono scorrere fra loro un filo rosso abbastanza robusto da poter ritrovare un quadro d'insieme e leggere l'ampiezza e la complessità del problema. Che venga dai membri familiari o dalle proiezioni della coscienza, è chiaro che per Pozzessere la cocaina è un problema sociale prima che personale, di rapporti prima che di solitudini. Per questo il suo lavoro sarebbe forse risultato più efficace se avesse puntato più sulle cause che sulle conseguenze, più sulla forza e la credibilità dei legami che sulla tragicità degli eventi.

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