martedì 30 agosto 2011

30 31 agosto LA VERSIONE DI BARNEY un film di Richard J. Lewis

Barney Panofsky è un produttore televisivo ebreo che vive a Montreal, dove colleziona mogli e bottiglie di whisky. Figlio affettuoso di un poliziotto in pensione col vizio del sesso e degli aneddoti, Barney è incalzato dalle ambizioni e dalle calunnie del detective O’Hearne, convinto da anni del suo coinvolgimento nella scomparsa di Boogie, amico licenzioso e scrittore dotato. Dopo l’uscita del libro di O’Hearne, che lo accusa di omicidio e di ogni genere di bassezza, Barney si decide a dare la sua versione dei fatti, ripercorrendo la sua (mal)educazione sentimentale e la sua vita fuori misura, consumata nell’Italia degli anni Sessanta e perseverata in Canada. Tra una partita di hockey e una boccata di Montecristo, l’irrefrenabile Barney rievoca il suo primo matrimonio con una pittrice esistenzialista e suicida, riesamina le seconde nozze con una miliardaria ebrea e ninfomane e riconsidera gli errori fatti con la sua terza e amatissima consorte, speaker garbata e madre dei sui due figli.
Indubbiamente non è facile misurarsi con il lavoro di trasposizione, figuriamoci poi sceneggiare le parole di Mordecai Richler e il suo romanzo più celebre (“La versione di Barney”), pubblicato in Italia all’inizio degli anni zero. Ma forse valeva la pena provarci perché Barney Panofsky ha ‘carattere’ cinematografico e personalità impetuosa per soddisfare quel pubblico trasversale che ama la letteratura e il cinema e resiste alla banalità dei pregiudizi. Purtroppo però la traduzione questa volta non funziona e l’omonimo libro di Richler eccede la versione di Richard J. Lewis, rendendo la sua conversione mediale trascurabile.
La versione di Barney è un film ‘gentile’, scritto e pensato da gentili, goym (non ebrei) gli avrebbe probabilmente chiamati l’ingovernabile Panofsky, che nel romanzo omonimo si racconta senza misura e in prima persona. Il regista, impegnato un decennio sulla scena del crimine (CSI), rinuncia consapevolmente all’uso della voce fuori campo del narratore, che non sempre è segno di difficoltà narrativa, prendendo così le distanze dal protagonista e lasciando che sia l’intreccio a prevalere sul personaggio.
Smarcandosi dalla fedeltà e appagato dall’esaltazione del tradimento, Lewis preferisce una ‘versione’ conciliata e conciliante di Barney, che manca l’identità ebraica e l’umorismo yiddish di Richler. Preoccupato forse della ‘diversità’ di Panofsky il regista finisce per renderlo troppo uguale a troppi eroi da melodramma, perdendo la peculiarità di un buontempone disprezzato da rabbini e gentili, sempre pronto a sacrificare verità e relazioni per una buona battuta. Una battuta che veicola sempre sentimenti profondi e sfoga un’energia nervosa a lungo trattenuta. A incarnare meglio del protagonista Paul Giamatti la straordinarietà espressiva dello spirito yiddish è il padre di Dustin Hoffman, attore ebreo e per questo probabilmente emotivamente prossimo al Barney letterario e in grado di riconoscerne e impiegarne l’umorismo e la superiorità paranoide.
L’Izzy Panofsky di Hoffman smaschera l’ordinarietà del Barney cinematografico, ereditando la pungente critica sociale di Richler e la sua precisa (e penetrante) ricognizione dei più piccoli dettagli della vita sociale. Mazel tov al piccolo grande uomo.

sabato 27 agosto 2011

27 28 29 agosto the next three days

John Brennan, la moglie Lara e il loro piccolo Luke fanno colazione con amore e con gioia, quando la polizia irrompe con un mandato d'arresto per omicidio a carico della donna. Per tre anni, il marito le fa visita quotidianamente, certo che sia tutto un abbaglio, che la giustizia le ridarà la sua casa e la sua vita. Persino più certo della moglie, che lei quell'atto non l'abbia commesso, che non avrebbe mai potuto. Quando anche l'ultimo appello viene respinto e Lara tenta il sucidio, John, tranquillo insegnante di letteratura e padre di famiglia, decide che se non sarà la legge a fare uscire sua moglie di prigione, sarà lui.
È così che Russel Crowe impegna la sua beautiful mind per trovare il modo di far evadere Lara dal carcere di massima sicurezza di Pittsburg. Sa che per farlo dovrà insozzarsi le mani, scendere nei bassifondi, usare la violenza. Alla fine, l'inquadratura lo coglierà allo specchio, col viso sporcato da tre macchie della superficie riflettente. Questo è Paul Haggis: poche parole, immagini esplicite. È la strada più difficile? Permetteteci il dubbio.
Remake del francese Pour Elle, The next three days ha offerto la possibilità allo sceneggiatore Haggis (Million dollar baby, Flags of our fathers) di continuare sulla strada di una regia intesa come organizzazione di sguardi. Questa volta persino con il sostegno di una giustificazione narrativa forte: cosa determinerà il successo o meno del piano folle (in senso donchisciottesco) del protagonista? La sua capacità di osservazione, è ovvio. Ma il passaggio da una scrittura di ferro – ambito in cui Haggis non difetta, anche se non è questo il caso da portare ad esempio, trattandosi di fatto di una riscrittura - ad una regia che non sia solo la sua messa in azione, per quanto virtuosistica e spettacolare, come quella che piace al nostro soggetto, non è un passaggio scontato. Necessita, appunto, di un di più che non è mai mancato a Eastwood (per usare un eufemismo) e manca da sempre a Haggis. Non bastano certo qualche citazione cinefila, dai Soliti Sospetti o da Match Point, o qualche tentativo di alleggerimento (i poliziotti che scherzano malamente sul loro ruolo al cinema) per dare un'anima al proprio lavoro. Non è cosa che si prende a prestito.
Film dalla tensione straordinaria, quasi schiacciante, si risolve nel chirurgico, logorante, semiperfetto scioglimento della stessa, senza che ci sia concesso aspirare a un lascito in più, a un dono imprevisto e gratuito. Haggis è un finto sentimentale: parla di grandi sentimenti ma ne controlla al millimetro la condivisione.

giovedì 25 agosto 2011

25 26 AGOSTO LA VITA FACILE

luca è un medico italiano che lavora in Kenia, solo, fatta eccezione per un'infermiera e qualche aiutante, in un piccolo ospedale umanitario. Mario è uno stimato chirurgo di una clinica privata romana, che lo raggiunge con la scusa di volerlo rivedere dopo anni di distanza, ma in realtà mira ad allontanarsi opportunisticamente e brevemente dal luogo di lavoro. Quando, malgrado le diverse scelte di vita, Mario e Luca ritrovano le ragioni dell'amicizia che li aveva tanto legati in passato, si presenta in Africa anche Ginevra, la donna che entrambi hanno amato e che ha sposato Mario. Gli equilibri faticosamente raggiunti saltano e la vita si ripresta a svolte e imprevisti.
Lucio Pellegrini è un regista giovane, estraneo a smanie di megalomania, uno che non si è mai presentato sullo schermo senza una storia, che sa cos'è la commedia e come si dirigono gli attori. Uno che parla del nostro paese e del suo presente (suo a tutt'oggi l'unico film a parlare dei fatti di Genova del 2001), anche quando esso è irrimediabilmente invischiato nel passat(ism)o.
Dopo essersi sperimentato nel comico (i film con Luca e Paolo) e nell'omaggio alla commedia all'italiana (Figli delle stelle), con La vita facile tenta una strada ibrida, che contamina genere e sentimento, e si rivela piacevolmente più libera. Non tutto deve “tornare” a tutti i costi nella sceneggiatura di Bises, Paolucci, e Salerno; il film non si diverte solo a raccontare personaggi che rivelano man mano aspetti del proprio essere che contraddicono l'etichetta che gli abbiamo facilmente messo indosso, ma anche a disattendere le aspettative formali e strutturali: il piccolo Ippocrate non si farà del male, la sua famiglia non inseguirà Favino con le lance appuntite, l'infermiera Elsa (Camilla Filippi) non passerà dall'altra parte dei ferri. Perché questo è un altro film. Più libero, appunto, di giocare, da un certo inoltrato momento in poi, con gli ingredienti del genere –valigette, tradimenti mélo, il caveau di una banca e una femme fatale- ma anche più vivo e meno scritto di altri, più attento ai volti che ai tramonti.
Detto questo, non ci si aspettino da Pellegrini le “bolle”, le sospensioni, le divagazioni del cinema indipendente che della libertà di struttura fa il suo credo: la sua attenzione al ritmo è rigorosa, la sbavatura bandita, la scena si chiude sempre con un attimo di anticipo piuttosto che di ritardo. Di una cosa, però, gli siamo particolarmente grati questa volta, e cioè di averci regalato un personaggio femminile fuori catalogo, di cui nel cinema italiano si sentiva la mancanza. Il personaggio della stronza. L'inquadratura della Ginevra di Vittoria Puccini, viziata, capricciosa, tanto bella quanto instabile, che all'aeroporto piange di frustrazione anziché di dolore, dà al film una coraggiosa e gustosa punta di sapore in più.

martedì 23 agosto 2011

23 24 agosto BENVENUTI AL SUD


Alberto è un mite responsabile delle poste della bassa Brianza a un passo dal tanto sospirato trasferimento nel centro di Milano. Quando gli comunicano che la promessa rilocazione gli è stata revocata per dare precedenza a un collega disabile, Alberto, per non deludere le speranze della moglie e del figlio, decide di fingersi a sua volta disabile. Durante la visita di controllo, commette però un'imprudenza e, come punizione, gli viene imposto un trasferimento in Campania, in un piccolo paese del Cilento. Per un lombardo abitudinario e pieno di preconcetti sul Sud Italia come lui, la prospettiva di vivere almeno due anni in quei luoghi rappresenta un incubo, cui si prepara con un nuovo guardaroba di vestiti leggeri e giubbotto antiproiettile.
Fra l'esagono francese e lo stivale italiano, la cartina socio-culturale del pregiudizio appare specularmente rovesciata. In Francia la commedia popolare brama il sole del Mediterraneo e le palme della Costa Azzurra, mentre teme il freddo della Manica e i cieli grigi delle regioni del Nord; in Italia il sogno dell'uomo padano vive all'ombra della Madunina di Milano e rivolge tutte le possibili stigmatizzazioni verso il Sud pigro e parassitario. Da Giù al Nord aBenvenuti al Sud, l'attraversamento delle Alpi dell'“opera buffa” di Dany Boon ristabilisce una connessione fra discesa geografica e declino civile mediante lo stesso percorso bonario e leggero di sovvertimento dello stereotipo. Il film si presenta infatti come un vero e proprio remake nel senso americano del termine: una replica puntuale degli snodi narrativi e delle principali gag dell'originale francese, adattata al linguaggio partenopeo e allo scontro con la cultura meneghina. Nella “traduzione” va persa molta della comicità surreale e strampalata della mimica e delle boutade di Dany Boon e Kad Merad, a favore di tempi comici più in linea con l'impostazione cabarettistica di Claudio Bisio e Alessandro Siani.
L'adattamento scritto da Massimo Gaudioso ricalca e parafrasa laddove serve, lisciando e addolcendo l'eccessivo schematismo della sceneggiatura originale soprattutto nei rapporti fra i vari personaggi. Per il resto, lo sceneggiatore di Gomorra si limita a convertire i vari elementi che caratterizzavano il Nord-Pas de Calais nel loro diretto corrispettivo cilentano (i formaggi puzzolenti diventano mozzarelle di bufala, i distillati alcolici e le birre corpose diventano caffè e limoncelli, mentre la tradizione dei carillon delle torri campanarie si converte nella pirotecnica barocca del folklore campano) e ad aggiungere qualche lieve elemento caricaturale sul razzismo leghista o di autoironia in merito allo stesso film di Garrone. Da parte sua, Luca Miniero aggiunge alla messa in scena piuttosto basica di Dany Boon un certo virtuosismo tecnico e uno spettro di colori più ampio e caldo, in linea con le tonalità della costa cilentana.
In definitiva, laddove ognuno - protagonisti, comprimari, caratteristi e autori - gioca il proprio ruolo a dovere e gestisce senza falli né malizia il gioco leggero della commedia, resta un dato non troppo confortante: il fatto che anche le idee, per ridicolizzare affettuosamente il nostro piccolo paese, abbiamo bisogno di importarle dall'estero.

sabato 20 agosto 2011

20 21 22 agosto RED

Frank Moses è un ex agente della CIA in pensione, che vive in una villetta uguale alle altre cercando di fare una vita uguale alle altre. Purtroppo per lui e per Sarah, la ragazza ingenua e sognatrice che ha conosciuto al telefono, i segreti di stato in possesso di Frank lo hanno trasformato da strumento di morte a bersaglio dell'Intelligence: qualcuno da eliminare e in fretta.
Inizia così quella che può apparire come la fuga di Frank Moses ma altro non è che il giro di reclutamento dei vecchi compagni: il vecchio Joe, il folle Marvin, il russo Ivan, lady Victoria, dopo di che la canna della pistola compie un giro di 180 gradi e la fuga si fa vendetta, la diaspora riunione, la pensione una nuova missione.
Tratto dal breve fumetto DC Comics scritto da Warren Ellis e illustrato da Cully Hammer, Red è stato completamente reinventato nella sceneggiatura dei fratelli Hoeber, responsabili dell'inserimento dei compagni di ventura del protagonista e del tono divertito e alleggerito del film. Non è, infatti, come uno dei più significativi adattamenti da un fumetto che si fa apprezzare e ricordare questo film, ma piuttosto come una riuscita composizione di quadri, personaggi e situazioni provenienti da spezzoni di pellicole diverse e originalmente e gradevolmente assemblati. I film come materiali di partenza e il racconto come risultato, dunque, anziché viceversa.
Ecco allora che nel bel prologo con Bruce Willis, ex supereroe in vestaglia, che prende a pugni il sacco dopo colazione, non c'è solo l'eco del suo Butch in Pulp Fiction (il pugile, la colazione, il mitra) ma c'è anche mister Incredibile e Léon (la piantina), mentre arrivati alla scena del ricevimento di gala, vien da chiedersi quando ci siamo già stati, se in un episodio cinematografico della saga di Danny Ocean o in uno televisivo di Alias. Eppure non sono citazioni soffocanti, forse non sono neppure citazioni, e c'è spazio per molto altro, compreso il sublime personaggio di John Malkovich, un panzone paranoico con un maialino di peluche sotto braccio dal quale estrarrà l'arma con cui umiliare una signorotta col bazooka, in una sequenza emblematica dell'operazione nel suo insieme, quanto a connubio tra ironia e spettacolarità.
Ma Willis e Malkovich non sono i soli a portare un valore aggiunto al proprio ruolo: a loro modo lo fanno anche “la regina” Helen Mirren, con il richiamo sornione alla passione tutta inglese per il giardinaggio, e Brian Cox, con la trilogia di Bourne nel curriculum. In assoluto, oltre a qualche buona battuta e a qualche ambientazione più originale del solito, è essenzialmente a quest'alchimia tra attore e personaggio che si deve il piacere della visione.
Da segnalare, in coda, un motivo di interesse anche nella figura di Sarah che, nel campionario dei caratteri femminili cinematografici, si può ascrivere come appartenente alla categoria della “palla al piede”. Con i romanzetti rosa in testa e le manette alle mani (quando non la pistola alla tempia), pretende ed ottiene di essere portata in prima linea e salvata ogni volta, contribuendo a fare del consenziente Bruce Willis un gentleman come pochi altri.

mercoledì 17 agosto 2011

18 19 agosto INCONTRERAI L'UOMO DEI TUOI SOGNI di woody allen

Alfie ha lasciato la moglie Helena perchè, colto da improvvisa paura della propria senilità, ha deciso di cambiare vita. Ha iniziato così una relazione (divenuta matrimonio) con una call girl piuttosto vistosa, Charmaine. Helena ha cercato di porre rimedio alla propria improvvisa disperata solitudine cercando prima consiglio da uno psicologo e poi affidandosi completamente alle ‘cure' di una sedicente maga capace di predire il futuro. La loro figlia Sally intanto deve affrontare un matrimonio che non funziona più visto che il marito Roy, dopo aver scritto un romanzo di successo, non è più riuscito ad ottenere un esito che lo soddisfi. Sally ora lavora a stretto contatto con un gallerista, Greg, che comincia a piacerle non solo sul piano professionale…
Woody ha preso nuovamente l'aereo ed è tornato in Gran Bretagna dopo che era tornato a respirare aria di Manhattan con Basta che funzioni. Nonostante l'aspetto sempre più fragile, Allen ha ormai le spalle più che larghe per sopportare l'ennesima, ripetitiva reprimenda critica: “Racconta sempre le stesse cose”. È vero: Woody non si inventa novità senili per stupire il pubblico. Anzi qui, fingendo di appellarsi allo Shakespeare del “Macbeth” in realtà si riallaccia al finale di uno dei suoi film più ispirati, Ombre e nebbia, che si chiudeva con la frase: “L'uomo ha bisogno di illusioni come dell'aria che respira”. Sono trascorsi quasi vent'anni da allora e, in materia, Allen sembra essersi ormai arreso all'evidenza: è proprio (e sempre di più) così.
Come in Tutti dicono I Love You (ma con l'esclusione dell'adolescenza) le diverse età si confrontano con un bisogno di qualcosa che esemplificano con la parola ‘amore' ma di cui, se richiesti, non saprebbero dire il significato. Non potendo sfuggire a questa esigenza ognuno cerca di trovare delle soluzioni che finiscono con il rivelarsi aleatorie e provvisorie anche se ognuno, in cuor suo, vorrebbe che fossero 'per sempre'. Ma il 'per sempre' non esiste nell'universo alleniano. Ognuno cerca di porre rimedio alla propria solitudine come può e come sa e non ha neppure bisogno di essere perdonato per questo.
L'umanità non può comportarsi altrimenti. Ciò che invece va duramente punito è il furto intellettuale, l'appropriarsi di idee altrui spacciandole per proprie, perseguire il successo a spese degli altri. In questo caso Woody diventa un giudice implacabile. Sarà anche vero che ritorna su propri temi. Ma sono 'suoi' per stile, qualità, leggerezza e profondità.

16 17 AGOSTO FEMMINE CONTRO MASCHI

Anna è piemontese, ama la musica lirica e la letteratura francese. Piero, suo marito, è calabrese, ama il calcio, gli amici, trattare con sufficienza il collega pakistano e spassarsela con un'altra donna. Un incidente e la conseguente e provvidenziale amnesia di Piero forniscono ad Anna l'occasione di trasformarlo nell'uomo ideale, vale a dire in un colto, fedele e nordico maggiordomo. Anche Valeria e Diana cercano da anni di cambiare i loro uomini, uniti dalla passione per i Beatles e per le false promesse, ma ora sono sul punto di perdere per sempre la pazienza. Vivono dentro una grande bugia, questa volta a fin di bene, anche gli ex coniugi Marcello e Paola, forzatamente riuniti sotto lo stesso tetto per soddisfare l'ultimo desiderio della madre di lui, ottantenne malata di cuore.
Donne manipolatrici e inacidite, uomini pigri e mammoni, bambine col grembiulino rosa e maschietti col grembiulino azzurro. Ma non basta. Il livello della comicità sul piatto si assesta su gag quali Solfrizzi che per guardare una ragazzina in shorts sbatte contro un palo o Ficarra e Picone che fanno ingelosire sulla spiaggia la fidanzata sbagliata. Quel che mancava al cinema italiano, insomma. Insieme al ripescaggio di Armando De Razza e Wilma De Angelis.
Il secondo volume del dittico di Fausto Brizzi lascia senza parole e costringe a ripensare l'opera nel suo complesso, nonostante il primo tomo fosse apparso, all'uscita, teatrale ma dignitoso. Eppure, da un certo punto di vista, era già reo di preparare il peggio. Perché è tra le pieghe del primo che si inserisce questo secondo resoconto ideologicamente ultraconservatore e cinematograficamente avvilente, visto che tecnicamente è uno spin-off, uno sviluppo dei personaggi che là erano solo abbozzati.
Vien voglia di dimenticare, ma occorre chiarire: è evidente che una commedia che nasce sotto un titolo ad ombrello come Femmine contro Maschi e viceversa non può non giocare sui luoghi comuni, ma un conto è farne uno strumento e ben altro conto è farne un fine. Se non fosse per Ficarra e Picone, che portano nel film i loro personaggi e una comicità piena, fatta di faccia, di bile e di cervello, verrebbe da sentirsi presi in giro dal tenore della proposta.
In fondo, le immagini dichiaratamente false dei filmini di famiglia girati da Bisio e dalla Brilli per ingannare la nonna sono le uniche briciole di cinema di tutto il film.

lunedì 15 agosto 2011

15 AGOSTO FOCACCIA BLUES

Attorno alla vera storia della "focaccia che si mangiò l'hamburger", ovvero l'impresa di un forno di Altamura che nel 2002 fece chiudere un McDonald's a suon di pizza, pane e focacce, lievitano tante vicende parallele. In costante disequilibrio tra finzione e realtà, assistiamo al resoconto delle tante anime altamurane protagoniste e testimoni della vicenda, al viaggio in America del giornalista Onofrio Pepe, intento ad esportare la focaccia pugliese nella culla del fast food, alla fiaba romantica di un fruttivendolo innamorato e della bella del paese sedotta da uno straniero alla guida di una sgargiante Corvette gialla. All'interno di queste cornici si innestano vari siparietti comico-nostalgici animati da Renzo Arbore e Lino Banfi o da ospiti d'eccezione come Nichi Vendola e Michele Placido.
Al secondo blues della sua carriera (dopo Albània Blues), il regista Nico Cirasola adatta il mood nostalgico e "sudista" dei canti dei neri d'America ad un conviviale contrappunto tra fantasia e documentario. I vari percorsi narrativi del film sono infatti altrettante gradazioni tra il vero e il falso: in mezzo al rigoroso stile documentaristico delle testimonianze degli altamurani (questori e carabinieri compresi) e all'operetta morale che ci accompagna al ritmo di tarantella in una Murgia a tinte forti, stanno infatti la surreale impresa "più vera della finzione" di Onofrio Pepe fra i fast food di New York e l'università dell'hamburger di Chicago, e le schermaglie comiche "più false della realtà" di Banfi e Arbore nella parte di loro stessi.
Richiamando alla mente, sempre con un prospettiva umoristica, sia i "profils paysans" di Raymond Depardon che la "realtà fantasticata" di Sergio Citti, e lavorando molto di improvvisazione e spontaneità, Cirasola riesce così a costruire un'opera sfaccettata, eterogenea e aritmica nell'intreccio, eppure straordinariamente genuina e omogenea nella forma. Anche da un punto di vista estetico, sfruttando un'interessante combinazione di formato digitale in alta definizione con ottiche da cinepresa 35mm,Focaccia Blues è un tentativo di amalgamare discorsi apparentemente oppositivi. Non c'è solo la focaccia che si mangia l'hamburger o il documentario che invade la finzione, ma anche il locale che soppianta il globale e la tradizione che vince sull'omologazione, in un trionfo di concetti nati da parole che si mangiano l'una con l'altra, o meglio, che scivolano l'una sull'altra ("glocalizzazione", "slow food" "docu-fiction").
Nel tentativo di essere opera sincretica e "antifonale", il film di Cirasola probabilmente manca di un'ottica realmente global e in alcuni momenti il suo elogio della tradizione e della semplicità tende quasi al lirismo arcadico. Eppure, soprattutto come docu-fiction, genere ancora altamente sperimentale soprattutto nel nostro paese, l'impasto di Cirasola è un composto di vari ingredienti gustoso e assolutamente non indigesto, semplice nell’ideologia ma tutt’altro che pedestre nel linguaggio.

sabato 13 agosto 2011

13 14 AGOSTO "MR BEAVER"

Walter Black ha diretto con successo la sua industria di giocattoli e la sua famiglia fino a quando la depressione non lo ha preso in un vortice che gli ha tolto progressivamente ogni piacere di vivere e persino la parola. La moglie ha resistito finché ha potuto, poi è venuto per lei il momento di preservare i figli e spingerlo a cavarsela da sé. Sembrava che Walter non ce l’avrebbe fatta e invece, parlando tramite la buffa marionetta di un castoro nella quale ha infilato il braccio, è tornato in vetta alle vendite aziendali e all’immagine che il figlio più piccolo ha di lui. Ma è davvero Walter che parla, che agisce e reagisce?
Jodie Foster regista ha una carriera breve ma di tutto rispetto, però è con questo film che le cose si fanno interessanti. Costruito come un film classico americano, con i suoi tre atti e i suoi colpi di scena al posto giusto, in realtàThe Beaver contiene una materia coraggiosa e perturbante, che quel tipo di cinema raramente esplora, specie così esplicitamente.
Il protagonista soffre di una malattia scomoda, probabilmente ereditata ed ereditaria, e lungi dal risollevarsi da solo dal baratro, attraverso un moraleggiante ma anche classico percorso dell’eroe, va letteralmente in pezzi. Solo la rinuncia all’american dream dell’impresa gloriosa e individualistica rappresenteranno, infine, una speranza. Se c’è una retorica in Jodie Foster è se mai quella familiarista, che però non è affatto una retorica quanto uno degli oggetti del suo cinema, in continua osservazione e ridefinizione e pertanto più aperto che mai, tutt’altro che ideologico. Oltretutto qui il discorso è più profondo ed è esattamente quello che fa Norah in occasione del suo diploma: tutto è destinato a fiorire, ogni dolore ad essere superato? Everything’s gonna be all right? La risposta stavolta è no, non sempre, o magari a caro prezzo.
L’altro elemento di coraggio, oltre al tema affrontato e a parecchie scelte di regia, è senza dubbio la convocazione di Mel Gibson per il ruolo di Walter “Black”: l’attore, la cui personale e privata dark side è però recentemente affiorata sotto gli occhi del mondo, offre qui una performance davvero generosa e potente, in un ruolo a dir poco complesso.

lunedì 8 agosto 2011

8 9 agosto COCA POP di Pasquale Pozzessere presente lunedi all'Arenare storie di dipendenza da cocaina relative a tre differenti generazioni. Un'anziana signora scopre che l'uomo con cui è sposata da molti anni fa uso di cocaina e quando questi se ne accorge inizia ad aggredirla e umiliarla violentemente. Una coppia benestante scopre che il figlio ventenne usa regolarmente cocaina per concentrarsi nello studio e la loro incertezza ad affrontare il problema fa degenerare la situazione. Una musicista cocainomane appena rientrata da Berlino scopre di essere incinta e comincia ad avere delle visioni. Passata dall'essere la droga d'élite dei ricchi manager e dei rampanti carrieristi degli anni Ottanta a diventare la sostanza stupefacente più utilizzata fra tutte le fasce di età e di reddito, la cocaina è oggi una droga pop, facile da reperire e da consumare. Per spiegare l'evoluzione più ampia del fenomeno, Pasquale Pozzessere pone in esergo al suo film dedicato alla polvere bianca le parole di interesse e curiosità di Sigmund Freud sugli effetti delle foglie di coca sul sistema nervoso, per poi chiudere con un resoconto dei dati sui consumi attuali e sul fatturato del mercato nero (soprattutto camorrista). Fra queste due citazioni, fra loro distanti più di 125 anni, Pozzessere elabora tre racconti di dipendenza da cocaina letta all'interno delle mura domestiche, e quindi osservata negli effetti non solo sul tossicodipendente ma anche sul suo ambiente familiare (reale o presunto, come nel caso dell'ultimo episodio). Il regista pugliese raduna molti attori famosi (Anita Caprioli, Stefano Dionisi, Lisa Gastoni, Arnaldo Ninchi) e li riprende cercando uno stile autentico, fatto di piani ravvicinati, luci naturali e macchina a mano. Fra loro è soprattutto la Caprioli a dare tutta se stessa nel doppio ruolo di madre presente e futura, genitore remissivo e preoccupato e musicista sbandata e visionaria. Ma, al di là del duplice ruolo dell'attrice e di una continuità scenografica (le tre storie si svolgono all'interno dello stesso appartamento, riconoscibile soprattutto dalla presenza di un vistoso frigorifero rosso), una precisa coerenza che giustifichi tale tripartizione parrebbe difficile da trovare. Si avverte come l'impressione di una struttura sfuggente, che procede per intersezioni anziché per insiemi: se i primi due segmenti sono da leggere come un incoraggiamento ad affrontare il problema nei rapporti sociali e familiari, l'ultimo è più uno sguardo introspettivo all'interno di una solitudine. È vero che tutte e tre le storie ruotano attorno al consumo di cocaina a varie età e alle tragiche conseguenze di una tossicodipendenza, ma non vedono scorrere fra loro un filo rosso abbastanza robusto da poter ritrovare un quadro d'insieme e leggere l'ampiezza e la complessità del problema. Che venga dai membri familiari o dalle proiezioni della coscienza, è chiaro che per Pozzessere la cocaina è un problema sociale prima che personale, di rapporti prima che di solitudini. Per questo il suo lavoro sarebbe forse risultato più efficace se avesse puntato più sulle cause che sulle conseguenze, più sulla forza e la credibilità dei legami che sulla tragicità degli eventi.

re storie di dipendenza da cocaina relative a tre differenti generazioni. Un'anziana signora scopre che l'uomo con cui è sposata da molti anni fa uso di cocaina e quando questi se ne accorge inizia ad aggredirla e umiliarla violentemente. Una coppia benestante scopre che il figlio ventenne usa regolarmente cocaina per concentrarsi nello studio e la loro incertezza ad affrontare il problema fa degenerare la situazione. Una musicista cocainomane appena rientrata da Berlino scopre di essere incinta e comincia ad avere delle visioni. Passata dall'essere la droga d'élite dei ricchi manager e dei rampanti carrieristi degli anni Ottanta a diventare la sostanza stupefacente più utilizzata fra tutte le fasce di età e di reddito, la cocaina è oggi una droga pop, facile da reperire e da consumare. Per spiegare l'evoluzione più ampia del fenomeno, Pasquale Pozzessere pone in esergo al suo film dedicato alla polvere bianca le parole di interesse e curiosità di Sigmund Freud sugli effetti delle foglie di coca sul sistema nervoso, per poi chiudere con un resoconto dei dati sui consumi attuali e sul fatturato del mercato nero (soprattutto camorrista). Fra queste due citazioni, fra loro distanti più di 125 anni, Pozzessere elabora tre racconti di dipendenza da cocaina letta all'interno delle mura domestiche, e quindi osservata negli effetti non solo sul tossicodipendente ma anche sul suo ambiente familiare (reale o presunto, come nel caso dell'ultimo episodio). Il regista pugliese raduna molti attori famosi (Anita Caprioli, Stefano Dionisi, Lisa Gastoni, Arnaldo Ninchi) e li riprende cercando uno stile autentico, fatto di piani ravvicinati, luci naturali e macchina a mano. Fra loro è soprattutto la Caprioli a dare tutta se stessa nel doppio ruolo di madre presente e futura, genitore remissivo e preoccupato e musicista sbandata e visionaria. Ma, al di là del duplice ruolo dell'attrice e di una continuità scenografica (le tre storie si svolgono all'interno dello stesso appartamento, riconoscibile soprattutto dalla presenza di un vistoso frigorifero rosso), una precisa coerenza che giustifichi tale tripartizione parrebbe difficile da trovare. Si avverte come l'impressione di una struttura sfuggente, che procede per intersezioni anziché per insiemi: se i primi due segmenti sono da leggere come un incoraggiamento ad affrontare il problema nei rapporti sociali e familiari, l'ultimo è più uno sguardo introspettivo all'interno di una solitudine. È vero che tutte e tre le storie ruotano attorno al consumo di cocaina a varie età e alle tragiche conseguenze di una tossicodipendenza, ma non vedono scorrere fra loro un filo rosso abbastanza robusto da poter ritrovare un quadro d'insieme e leggere l'ampiezza e la complessità del problema. Che venga dai membri familiari o dalle proiezioni della coscienza, è chiaro che per Pozzessere la cocaina è un problema sociale prima che personale, di rapporti prima che di solitudini. Per questo il suo lavoro sarebbe forse risultato più efficace se avesse puntato più sulle cause che sulle conseguenze, più sulla forza e la credibilità dei legami che sulla tragicità degli eventi.

sabato 6 agosto 2011

ADELE E L'ENIGMA DEL FARAONE 6 7 AGOSTO

La sera del 4 novembre 1911 avvengono fenomeni strani a Parigi. Da una delle finestre degli appartamenti di Place des Pyramides si irradia una strana luce e, nei dintorni, uno pterodattilo fuoriuscito dal museo del Jardin des Plantes attacca la vettura che trasporta un'importante figura politica facendola precipitare nella Senna. Tutta questa serie di eventi è misteriosamente collegata ad Adèle Blanc-Sec, intrepida avventuriera e scrittrice di romanzi d'appendice, che in quel momento si trova in Egitto per recuperare il sarcofago contenente la mummia di un importante medico alla corte del faraone.
A Luc Besson deve esser sembrato un sogno l'idea di poter adattare le tavole a fumetti della sfrontata pulzella della Belle Époque di Jacques Tardi. Oltre a permettergli di tenersi al passo con l'ultima infatuazione di Hollywood per le graphic novel, questa ardita eroina del primo Novecento gli consente di creare la sua personale Lara Croft parigina in corsetto e cappello piumato, di scomodare sia Indiana Jones che Fantômas, Una notte al museo e Belfagor, e di dare così ulteriore sfogo alla sua ossessione per gli incroci fra immaginario francese e americano.
E bisogna ammettere che, nella sua scombinata eterogeneità e nell'entusiasmo infantile di aggiunte e rimestamenti, la ricetta del pastiche formato famiglia gli venga molto più saporita “au vin blanc” (o meglio, “au vin blanc-sec”) piuttosto che “ai frutti di bosco”. Con Adèle Blanc-Sec, Besson riesce infatti a compiere esattamente quel che non gli era riuscito con il ciclo di Arthur e il popolo dei Minimei: divertirsi e divertire, saccheggiare a piene mani dal cinema popolare internazionale e coniugare l'umorismo e lo spirito d'avventura più fanciullesco con i toni grotteschi e sanguigni della sua prima produzione. In apertura, si concede di giocare con le convergenze del caso che tanto piacevano alla Amélie Poulain di Jean-Pierre Jeunet, solo per ritardare l'ingresso della sua eroina e creare un senso di aspettativa. Il quale viene soddisfatto fra le piramidi di Giza, dove facciamo conoscenza della bella e sfrontata Louise Bourgoin, intenta a profanare tombe dei faraoni e inseguita da un cattivo che ricorda vagamente Toht, il maggiore nazista de I predatori dell'arca perduta (e che è uno straordinario, seppur fugace e ben camuffato, Mathieu Amalric). Il gusto per riferimenti e citazioni prosegue esponenziale, facendo convergere la Parigi degli sceneggiati francesi degli anni sessanta con gli universi fantastici di Spielberg e James Cameron e mettendo assieme dinosauri resuscitati e prozii dell'ispettore Clouseau, avatar preistorici e cacciatori imbranati da cartoon, in un groviglio più fumettistico del suo fumetto d'origine e che spesso diverte per l'eccesso di idee oltre che per la cura della forma.
“Ora che abbiamo fatto l'incredibile, passiamo all'impossibile” dice a un certo punto la bella e carismatica avventuriera. E nell'esatto momento in cui Besson chiude-non chiude il suo film e mette in prospettiva un nuovo franchise, viene solo da chiedersi cosa ci aspetti.

giovedì 4 agosto 2011

4 5 agosto AMORE E ALTRI RIMEDI


Jamie Randall è un giovane uomo abile con le donne e con le parole. Seduttore implacabile e disoccupato, dopo aver conosciuto troppo a fondo la moglie del suo datore di lavoro, Jamie ricomincia dal farmaceutico e diventa informatore scientifico per la Pfizer. Spedito nell'angolo nordorientale degli Stati Uniti a ‘spacciare' antidepressivi, a doppiare il Prozac e a sbaragliare la concorrenza, Mr. Randall blandisce medici e seduce segretarie, rivelandosi in poco tempo, tanta azione e grande fascino il venditore numero uno. Sognando ad occhi aperti di lasciare l'Ohio per volare con una promozione a Chicago, Jamie inciampa in Maggie, artista bohémien affetta dal morbo di Parkinson al primo stadio. Ingordi di sesso ma refrattari ai sentimenti e alle relazioni stabili Jamie e Maggie diventano amanti appassionati. Innamorati loro malgrado proveranno a resistersi e a resistere alla tentazione di amarsi.
La legge eterna della commedia sentimentale, maturata negli anni Trenta, stabilisce che la distanza e il (sacro) mistero dei corpi sono lo spazio che il desiderio deve percorrere. Nondimeno qualcosa è cambiato nel corso del tempo e se alcune romantic comedy hollywoodiane insistono a frequentare il passato reiterando la norma del sesso che procede mascherato e per allusioni, Edward Zwick diserta con disinvoltura le regole del genere. Con i tempi della commedia e dentro una commedia che commedia non è, non del tutto almeno, il regista americano consuma i suoi protagonisti in amplessi impetuosi, ritrovando tra le lenzuola ogni segreto del cuore. E proprio il cuore è scommessa e posta di Amori & altri rimedi. L'energia erotica necessaria a sostenere l'inesausta performance sessuale la incarnano Jake Gyllenhaal e Anne Hathaway, già coppia (in)felice dentro l'idillio pastorale di Ang Lee(I Segreti di Brokeback Mountain). Sopravvissuti a un matrimonio andato a male all'ombra di una montagna, i due attori si danno appuntamento in Ohio portandosi dietro e dentro la commedia i segni di un trascorso melodrammatico. I loro corpi e il loro aderire gioioso e sensuale asciugano le tracce del lirismo svenevole di Zwick, interpretando due anime diversamente infelici, smarrite nella malinconia e nel desiderio di amarsi nonostante una malattia degenerativa.
Colpevole troppe volte di un cinema (Vento di PassioniL'ultimo samuraiDefiance, etc) confezionato immagine per immagine pensando al plauso dello spettatore o al conseguimento di un premio, di film immediatamente comprensibili che contengono già nell'atto di produzione quello di interpretazione, Zwick osa questa volta sfumature, varianti e impliciti, trovando momenti di ispirata (e insperata) delicatezza. Combinando il registro romance con la commedia, Amori & altri rimedi esibisce sentimento e divertissement nell'America ‘impotente' degli anni Novanta che correggeva l'esasperato puritanesimo, sperimentava in laboratorio gli orgasmi e avviava la corsa al Viagra. Gli anni in cui i boomers sfioriti si scoprivano incapaci di ‘amare' e la Pfizer riduceva in pillole (blu) il sogno americano.

martedì 2 agosto 2011

2 3 agosto FIGLI DELLE STELLE di lucio pellegrini

La morte sul lavoro di un giovane portuale di Marghera convince il collega e amico Toni a partecipare a una trasmissione televisiva e a confrontarsi con l'impopolare ministro Gerardi. Il pudore e la naturale timidezza impediscono al ragazzo di ribattere e di rivendicare il proprio diritto alla sicurezza. Fuggito e inseguito da Marilù, una giornalista sensibile e disponibile a dare voce ai perdenti, Toni incontra fortuitamente Pepe, istruttore Isef precario col sogno della supplenza, e Ramon, scarcerato disilluso a un passo dall'infarto. Grandi sognatori, votati a un più modesto destino, decidono di sequestrare Gerardi e di risarcire coi soldi del riscatto il dolore della vedova di Marghera. Ma niente andrà secondo i piani stabiliti: rapito l'uomo sbagliato, un onesto e incolpevole sottosegretario, fuggiranno sulle montagne sopra Aosta e ripiegheranno dentro un vecchio appartamento. Tra dischi e canzoni vintage diventeranno eroi di un sogno. 
Da molto, troppo tempo, non si vedeva sui nostri schermi una commedia attenta alla concretezza e al dettaglio della realtà contemporanea, una commedia, ancora, che contiene l'idea di stare insieme e di capire che in questo c'è qualcosa di positivo, c'è un progetto e la consapevolezza che il fare serve. Figli delle stelle, che segna il ritorno di Lucio Pellegrini al cinema dopo liceali “seriali” e famiglie disfunzionali, è un'avventura esistenziale dinamica e inconsueta, in cui una banda improbabile di persone che hanno perso il treno e che non hanno compreso bene cosa sia successo decide di fare qualcosa al di sopra e oltre le loro possibilità, qualcosa di inatteso che ha il carattere del destino. Il rapimento dell'onorevole Stella di Tirabassi non diventerà tuttavia strumento di riscatto per gli (anti)eroicomici di Pellegrini, che ancora una volta offre ai suoi personaggi lo sguardo benevolo di chi soffre insieme. 
Come nelle sue opere precedenti, E allora mambo o Tandem, la struttura narrativa procede per giri sempre più stretti, stringendo la banda Brancaleone in una morsa senza via di uscita e dentro un appartamento vintage. Ma se il sequestro naïf di un gruppo che ha tutta l'aria di appartenere a un'altra epoca (gli anni Ottanta) non porterà alla conquista del paradiso, è pur vero che illumina un disagio e dichiara che serve un gesto di volontà per cambiare la propria vita e quella degli altri. Pellegrini, come i suoi figli delle stelle, procede maldestro lungo una serie di prove e di imprese senza il coraggio di azzardare il sorpasso, sciogliendo la tensione e la neve e preferendo una riconciliazione davanti al mare.
Figli delle stelle, vitale e imperfetto, è un'opera che si apprezza comunque per il suo progetto, perché cerca una forma che sappia parlare al pubblico, perché non teme di sbagliare tono o di cadere nel banale pur di tenere gli occhi sul presente dai contorni poco piacevoli, perché scopre una ricchezza umana non prevista, come spesso nella vita. Comico e dolente, si allontana dalla commedia di genere, prendendo soluzioni inaspettate e saltando su un piano surreale (forse la parte più riuscita). Intorno agli sghembi protagonisti che vogliono cambiare il corso della loro vita, il regista coglie i segni inquietanti del paesaggio che ci circonda e i sogni davvero modesti degli italiani di oggi, poeti e calciatori.